giovedì 11 dicembre 2014

L'ARTE DEL FUMO E IL FUMO NELL'ARTE (pt. 2)


Nel fumo


Quante volte t'ho atteso alla stazione
nel freddo, nella nebbia. Passeggiavo
tossicchiando, comprando giornali innominabili,
fumando Giuba poi soppresse dal ministro
dei tabacchi, il balordo!
Forse un treno sbagliato, un doppione oppure una
sottrazione. Scrutavo le carriole
dei facchini se mai ci fosse dentro
il tuo bagaglio, e tu dietro, in ritardo.
poi apparivi, ultima. È un ricordo
tra tanti altri. Nel sogno mi perseguita.

Eugenio Montale




James Dean in Gioventù bruciata, 1955.


Spesso il fumo viene associato alle sigarette, alla memoria di un ricordo svanito che riaffiora, a un'addio drammatico e uggioso (basti pensare a tutti i film usciti negli anni '40 e '50, primo fra tutti Casablanca) o all'alone di mistero di un eroe ribelle nel cinema. 
A proposito di ribellione e di fumo, c'è chi ha fatto del fumo di marijuana la sua particolare provocatoria tecnica. Si tratta dell'artista brasiliano Fernando de La Roque che realizza le sue tele attraverso maschere pre-preparate, ben consapevole che non è il soggetto in sé ad essere rilevante ma la tecnica pittorica. 



Fernando de La Roque

Fernando de La Roque all'opera















Ma c'è chi del fumo ha fatto più che una provocazione, ma una vera tecnica.
Uno di questi è Jim Dingilian, newyorkese, con un master in fotografia presso il Rochester Institute of Technology. Per creare le sue opere, l'artista raccoglie le bottiglie di liquore vuote di varie dimensioni, forma e colore. Dingilian vede ogni bottiglia scartata come un “artefatto del consumismo, piacere o terrore”. Le scene dettagliate di questi luoghi si possono trovare “imbottigliate” nelle sue opere, richiamano auto bruciate sotto i ponti o altri scenari, luoghi di desolazione ai margini delle periferie. L’artista per generare le immagini accende una candela, indirizza la fiamma e il fumo all’interno della bottiglia per rivestire le sue pareti con uno strato di fuliggine.



Jim Dingilian crea le scene, grazie a una mano incredibilmente ferma. Spazzola lentamente la fuliggine con la punta di un pennello legato a un bastoncino che manovra sospeso al centro della bottiglia. Utilizzando differenti pressioni, e l’incredibile controllo del polso, l’artista rimuove strati di fuliggine, quella che rimane sul vetro forma le straordinarie immagini.

Jim Dingilian

Infine c'è chi "dipinge" veramente dei quadri con il fumo: il suo nome è  Michael Fennel. 
Negli ultimi 16 anni ha sviluppato una tecnica particolare (che mantiene in parte segreta) per manipolare il fumo su pannelli di legno, creando incredibili opere.
Sul suo sito, l’artista spiega che “il fumo come strumento di disegno ha un ovvio limite: è molto volatile e non puoi disegnare una linea. Ma forse più grave è che puoi facilmente dare fuoco alla carta e bruciare tutto lo studio”.
Le opere hanno un aspetto etereo e volatile e, per quanto siano in bianco e nero, si fanno apprezzare proprio per i colori: il nero infatti è “luminoso”, e ha una profondità che al confronto il carboncino può risultare piatto e pallido.

Michael Fennel all'opera






lunedì 24 novembre 2014

L'ARTE DEL FUMO E IL FUMO NELL'ARTE (pt 1)



Dopo la visione tanto attesa del film Coffee and cigarettes, il post sul fumo nell'arte è venuto spontaneo.


L’arte pittorica comincia ad interessarsi al fumo di tabacco dopo la scoperta dell’America (1492) quando iniziò, seppur tra alterne vicende, la sua irresistibile ascesa nella società occidentale del Vecchio Mondo. Le immagini di fumatori risalenti a quel periodo ritraggono per lo più vita domestica, occupazioni quotidiane oppure feste contadine, di solito completamente ubriachi, circondati da figure persino deformi. L’associazione fumo-miseria divenne automatica. Come in questo quadro di Hals, dove con rapide pennellate è reso un ambiente goliardico e probabilmente vizioso.

Adrian Brouwer, Fumatore, (1608-1638)

Frans Hals, Ragazzo con pipe donna che ride (1623-25) 





















Con la seconda metà del Settecento, invece, l’atto del fumare tabacco viene lentamente associato alla figura dell’eroe borghese e, contemporaneamente, alle figure di molti antieroi.

Elevazione e decadenza: chi fuma è l’artista, l’eroe, l’adulto che segnala, esibendo il sigaro la sigaretta la pipa, una distinzione sociale, morale o intellettuale. La figura del fumatore subisce, così, un’operazione di sublimazione: essa è trasfigurata, ingigantita, mitizzata.

Nella seconda metà dell’Ottocento, la pratica del fumo costituisce un elemento distintivo dell’immagine che l’artista decadente intende dare di sé. Pagine memorabili lo ritraggono nell’atto di consumare del tabacco, di pregiatissima provenienza, e di utilizzare per questo una serie di accessori, preziosi ed eleganti, che sottolineano una ricercatezza non fine a se stessa, esteriore e materiale, ma indicativa di una superiorità spirituale. Si tratta di una forma di auto-rappresentazione mediante la quale il dandy ribadisce la sua diversità rispetto alla società borghese massificata e alienata che ha posto al centro il capitale e ai margini l’arte, privata della sua aura sacrale e ridotta a merce di consumo. Fumare, lo si legge nel sonetto baudelairiano dedicato alla pipa, ha il potere incantatorio e fascinoso di alleviare il dolore: l’anima è come ammaliata dalla avviluppante «rete mobile e cilestrina» delle spiraliformi esalazioni del tabacco «in fiamme».


E. Manet, Ritratto di Mallarmé con Sigaro, (1876)




.
"Tutta l’anima è riassunta
quando lenta l’espiriamo
in tanti anelli di fumo
aboliti in altri anelli"
 Stéphane Mallarmé, Hommage, 1895
 



All’incanto però subentra il disincanto quando matura una consapevolezza nuova, lucida e amara: i miti si infrangono quando lo specchio rimanda l’immagine crudele di un morbo insidioso che proietta la sua ombra di morte, metafora perenne dello scorrere del tempo e della fugacità della vita. In questi istanti l’uomo può avvertire, nel suo sentirsi fragile e precario, il desiderio di rinascere.

Van Gogh, Teschio con sigaretta accesa, (1885/6)



..e se il fumo non fosse solo l'oggetto del quadro, ma materia pittorica per il quadro stesso?


lunedì 20 ottobre 2014

ESCHER - ROMA


Escher, Relatività (1953)



“Avevo percorso un labirinto, ma la nitida Città degl’Immortali m’impaurì e ripugnò. […] Nel palazzo che imperfettamente esplorai, l’architettura mancava di ogni fine. Abbondavano il corridoio senza sbocco, l’alta finestra irraggiungibile, la vistosa porta che s’apriva su una cella o su un pozzo, le incredibili scale rovesciate, coi gradini e la balaustra all’ingiù. Altre aereamente aderenti al fianco d’un muro monumentale, morivano senza giungere ad alcun luogo, dopo due o tre giri, nelle tenebre superiori delle cupole”.
 Borges, da L’immortale, racconto che apre L’aleph.



Prosegue a Roma, presso il meraviglioso Chiostro del Bramante, la mostra antologica dedicata a Maurits Cornelis Escher
Escher, mano con sfera riflettente

In Mano con sfera riflettente Escher compone quello che percepisce direttamente, vale a dire la sua mano, e quello che la sua vista non raggiungerebbe senza l'ausilio della sfera, vale a dire se stesso nella stanza deformata e ampliata: due mondi sono presenti contemporaneamente mentre la superficie sferica viene a coincidere con l'ambiente circostante innescando, all'interno della litografia, una dialettica tra ciò che sembra "reale" e ciò che invece non lo è poiché è un riflesso. La descrizione in terza persona che l'autore ci offre del suo autoritratto è a questo proposito significativa: "Sulla mano del disegnatore c'è una sfera riflettente. In questo specchio egli vede un'immagine molto più completa dell'ambiente circostante, di quella che avrebbe attraverso una visione diretta. Lo spazio totale che lo circonda - le quattro pareti, il pavimento e il soffitto della sua camera - viene infatti rappresentato, anche se distorto e compresso, in questo piccolo disco. La sua testa, o più precisamente, il punto fra i suoi occhi, si trova nel centro. In qualsiasi direzione si giri, egli rimane il punto centrale. L'ego è invariabilmente il centro del suo mondo" (M.C.Escher, Grafica e disegni, cit., p. 13). L'espediente di utilizzare una superficie riflettente non era certo nuovo al mondo dell'arte, basti pensare all'autoritratto di Parmigianino. 

Parmigianino, Autoritratto 1524








Escher, Belvedere (1958)











Nel 1958 Escher realizza la sua prima litografia dedicata alle costruzioni impossibili: BelvedereUn ragazzo ha in mano un cubo impossibile e osserva perplesso questo oggetto assurdo. Pur avendo in mano gli elementi che gli permettono di notare che qualcosa non va, pare non accorgersi del fatto che l'intero Belvedere è progettato su quella stessa struttura. Escher nel suo primo libro scrive a proposito di quest'opera: "in basso a sinistra giace un pezzo di carta su cui sono disegnati gli spigoli di un cubo. Due piccoli cerchi marcano le posizioni ove gli spigoli si intersecano. Quale spigolo è verso di noi e quale sullo sfondo? E' un mondo tridimensionale allo stesso tempo vicino e lontano, è una cosa impossibile e quindi non può essere illustrato. Tuttavia è del tutto possibile disegnare un oggetto che ci mostra una diversa realtà quando lo guardiamo dal di sopra o dal di sotto". Il cubo di cui parla Escher è noto con il nome di cubo di Necker.

La scala che porta al secondo piano dell'edificio inoltre è contemporaneamente all'interno e all'esterno di esso, cioè si tratta di una scala impossibile.

"siete davvero sicuri che un pavimento non possa essere anche un soffitto?" 

Escher, Cielo e acqua, 1938

In Cielo e acqua sfrutta pieni e vuoti. Il rombo è costruito su figure ambigue: anatre nere che, con una rapida inversione interpretativa all'altezza della linea mediana, si alternano a quattro pesci bianchi stilizzati. Le figure vanno definendosi sempre più salendo agli estremi del rombo.


Tassellazioni, poliedri, forma e logica dello spazio, autoreferenzialità. Sono questi i cardini dell’arte matematica di Escher che hanno ispirato scienziati e artisti successivi.
In tutte le opere non vi è tuttavia solo la fredda logica delle scienze esatte, ma mondi naturali con panorami, scorci, piante ed animali reali od immaginari intervengono ad arricchire i suoi lavori in un’ottica straordinariamente globale. Bellissime ad esempio le formiche che camminano sul Nastro di Möbius ma anche gli insetti che diventano tasselli per riempire una figura piana  sul foglio e poi “volare via” in una terza dimensione impossibile.
Escher,  Nastro di Möbius II (Formiche rosse)

Escher, Metamorphosis (dettaglio)















"Solo coloro che tentano l'assurdo raggiungeranno l'impossibile."



ESCHER
a cura di Marco Bussagli

20 Settembre 2014 – 22 Febbraio 2015
Roma, Chiostro del Bramante

ORARIO APERTURA
Tutti i giorni dalle 10.00 alle 20.00
Sabato e domenica dalle 10.00 alle 21.00
(la biglietteria chiude un’ora prima)

INFO | T (+39) 06 916 508 451

LUNEDI' UNIVERSITARIO
Ingresso in mostra a € 5,00 (anzichè € 13,00) per tutti gli studenti universitari

lunedì 23 giugno 2014

Frida Kahlo - Si sbagliò la colomba

«Ero solita pensare di essere la persona più strana del mondo ma poi ho detto, ci sono così tante persone nel mondo, ci dev’essere qualcuna proprio come me, che si sente bizzarra e difettosa nello stesso modo in cui mi sento io»

Frida Kahlo, Autoritratto come Tihuana.





Quelle sopracciglia folte e lo sguardo severo: Frida Kahlo era già destinata a diventare un'icona.
Commovente il filmato in cui la si vede cedere alla dolcezza del suo profondo amore per Diego Rivera.
Ed è proprio Rivera, qui rappresentato come il terzo occhio della dea Kali: in "Autoritratto come Tehuana"  è al centro dei suoi pensieri. I fiori che Frida porta in capo diramano le loro radici e trasmettono un senso di fragilità, come la frattura di un calice di cristallo che non si spezza, ma rimane profondamente crepato.



La mostra comprende circa 167 opere tra dipinti e disegni, che documentano l’intera carriera artistica di Frida Kahlo, riunendo capolavori assoluti tra raccolte pubbliche e private, provenienti da Messico, Europa e Stati Uniti. Ottima nella seconda sala l'interazione con l'arte messicana, che ha fortemente influenzato la sua carriera sebbene fosse autodidatta. 




Frida e l'aborto
La sua esistenza è tristemente legata al terribile incidente avuto all’età di diciasette anni.   L’autobus su cui viaggiava si schiantò contro un tram e le conseguenze che riportò  furono disastrose. Varie fratture, tra cui quelle  alle vertebri lombari,  la costrinsero a dolorosi e molteplici interventi chirurgici,  a lunghe degenze in ospedale e ad una esasperante immobilità.
Presto manifestò doti artistiche dipingendo spesso se stessa. La sua produzione è composta soprattutto da autoritratti di piccolo formato dove raffigura  una donna sofferente nell’anima, nel fisico, ma che mostra sempre fierezza e voglia di vivere.

Un altro evento che la segnò profondamente fu l'aborto e l'inadeguatezza del suo corpo a portare a termine una gravidanza. In "Frida e l'aborto" il bambino è legato a Frida da un cordone ombelicale che sale come un rampicante lungo la gamba destra. In questo disegno si respira la vita come morte.

Frida a letto



In "Frida a letto" lei si ritrae tenendosi l'addome dal dolore. Una sola lacrima le solca il viso, mentre il cordone si dirama verso cinque elementi simbolici, tra i quali lo stesso bacino che le impedisce di diventare madre.

Autoritratto con collana di spine


In quest'opera, particolarmente struggente, Frida si autoritrae come un moderno Cristo: lo sguardo fisso e fermo, guarda dritto in fronte alla tragica realtà che sta vivendo e sembra non far trapelare alcuna emozione. Il Colibrì vivo è simbolo di fortuna ma anch'egli sembra quasi crocifisso e appeso senza più vita ormai, mentre la scimmia generalmente ricorda la futile bramosia dell'uomo.
Sul capo una stoffa è intrecciata riprendendo la forma di un otto orizzontale, simbolo dell'eternità e dell'infinito, mentre le farfalle simboleggiano l'amore: l'ennesimo richiamo all'amore eterno per Diego Rivera, nonostante i tradimenti e l'abbandono. L'opera si ispira infatti al "Winged Domino"  di Roland Penrose, opera dedicata alla separazione dalla moglie e in cui la collana di spine riferisce direttamente al cognome Pen-rose. 



Concludo con l'opera con cui si conclude la mostra: "Autoritratto con colomba". Il tratto incerto è indice dei suoi peggioramenti di salute eppure questo disegno mantiene ancora un forte spessore emotivo: la bocca è ammutolita, cancellata, inesistente. Niente più parole per una vita che le ha concesso poche gioie. La colomba è il cimbolo della sua anima smarrita e poggia ancora su intreccio di linee che ricorda il simbolo dell'eternità. I suoi occhi non guardano più con fierezza verso lo spettatore, ma guardano "oltre", si proiettano verso l'infinito.


Dal suo diario sappiamo che la colomba è legata a un'amara poesia.


Si sbagliò la colomba.
Si sbagliava.
Per andare al nord fuggì al sud.
Credette che il grano fosse acqua.
Si sbagliava.
Credette che il mare fosse il cielo;
e la notte, la mattina.
Si sbagliava.
Credette che  le stelle fossero rugiada;
e il calore neve.
Si sbagliava.
Credette che la tua gonna fosse la tua blusa
e il tuo cuore la sua casa.
Si sbagliava.
(Lei si addormentò sulla spiaggia.
Tu, sulla cima di un ramo)

Se equivocó la paloma, Rafael Alberti.



FRIDA KAHLO
a cura di Helga Prignitz-Poda
20 marzo - 31 agosto 2014


Biglietti
Intero € 12,00
Ridotto € 9,50


Informazioni, prenotazioni, visite guidate per singoli e gruppi
Tel. 06 39967500 

http://www.scuderiequirinale.it/categorie/mostra-frida-kahlo



martedì 22 aprile 2014

Munch e la mostra anti-urlo di Restellini





Attraverso l’arte cerco di vedere chiaro nella mia relazione con il mondo, e se possibile aiutare anche chi osserva le mie opere a capirle, a guardarsi dentro.           E. M.



Per chi si trovasse a Genova, immancabile è la visita alla mostra presso il Palazzo Ducale dedicata ad Edvard Munch e curata da Marc Restellini (già direttore della Pinacothèque de Paris), in collaborazione con Arthemisia Group e 24 Ore Cultura.
Il percorso espositivo racconta l’evoluzione artistica di Munch attraverso ottanta opere, da quelle giovanili fino ai quadri della maturità.

"Io avverto un profondo senso di malessere, che non saprei descrivere a parole, ma che invece so benissimo disegnare", scriveva Munch.

Edvard Munch è stato definito il "pittore dell'angoscia", ma non so se l'angoscia sia più dentro alle sue opere o negli occhi di chi la osserva. Sicuramente la malattia e la morte sono state compagne fedeli di una vita difficile e ciò ha portato la sua personalità ad essere fortemente caratterizzata dalla sofferenza e dal conflitto. Era un uomo elegante in pubblico, ma percorso da una sensibilità straziante e nevrotica insolitamente poetica e non pittorica, che l’artista tentava di ammaestrare con l’alcol e l’ascesi artistico-pittorica.

La bambina malata

La litografia "La bambina malata" arriva come una morsa allo stomaco e toglie il fiato: lo sguardo assente, distratto, è ormai stanco e senza speranze. I capelli sono arruffati e scomposti sul cuscino; è molto tempo che la ragazza è a letto e non si alzerà molto presto.
Più che angosciante o straziante, quest'opera possiede l'eleganza e la pacatezza della malinconia mista a un vago sentore di rassegnazione.





Quanta bellezza e quanta profonda seduzione, invece, nella Madonna estatica e abbandonata ai suoi pensieri. Anche in quest'opera la morte ritorna nello sguardo cupo e incerto dell'embrione che osserva la Madonna-madre dal basso...

“Abbiamo sofferto la morte durante la nascita. Siamo lasciati con la più strana delle esperienze: la vera nascita, che è chiamata morte. Per cosa siamo nati?” (E. Munch)





Attrazione, 1896





"Attrazione": due sguardi e un unico pensiero, tradotto in questo fiume/strada che porta lontano, in un luogo e in un tempo imprecisato.
I volti sono abbozzati ad eccezione degli occhi raffigurati con due macchie nere, come due profondi buchi neri che inghiottono fino al profondo oscuro dell'anima dove sono nascosti segreti e pensieri.
I capelli di lei danzano mossi dal vento, guidati dallo scambio ipnotico degli sguardi verso di lui, come richiamati da un indomabile magnetismo.





Gelosia II, 1896


















In primo piano un uomo turbato, con lo sguardo perso nel vuoto. Sta nascendo in lui un pensiero conturbante che prende forma alle sue spalle: la gelosia lo porta a visualizzare un incontro. Lei, la donna amata, è nuda, seducente e ammiccante con la sua veste aperta a mostrare le sue forme. Un invito chiaro e malizioso per lui, un altro uomo.
Il timore di perdere l'amata si insinua in questa tela intitolata "Gelosia II".
Giovane donna in lacrime





"Giovane donna in lacrime":
Lascio che sia l'immagine a trasmettere il risflesso di dolcezza di questo sguardo triste e sconsolato. Il viso è abbassato e i capelli le scendono dolcemente sul corpo, delineando e accarezzando le sue forme.




"Bisogna che la carne prenda forma"





Purtroppo per me la mostra si conclude con alcune opere di Munch reinterpretate da Andy Warhol. Scrivo 'purtroppo' perché di fronte ad esse il mio struggimento legato alle emozioni per le opere di Munch si spegne rapidamente. Il pathos e la sofferenza che sento (e rifletto?) nelle opere dell'artista norvegese ricade in una tomba arida fatta di colori fluorescenti e immagini ripetute e svuotate di significato. Posso dare valore storico o provocatorio a Warhol eppure decisamente non riesco ad apprezzarlo. Influenzata dal mio astio personale per l'artista newyorkese, non riesco a fare a meno di pensare che questo confronto sia nato dalla necessità di aumentare il catalogo della mostra (vista l'effettiva difficoltà di reperire in prestito le opere di Munch)... Mah...





ORARI

Lun: 14.00-19.00
Mar-dom: 9.00-19.00


BIGLIETTI

Intero € 13,00
Ridotto € 11,00
Ridotto bambini (3/10 anni) € 5,00
Ridotto Gruppi € 10,00
(prenotazione obbligatoria min 15 max 25 persone)

Infoline e prevendita:

tel. +390109868057
biglietteria@palazzoducale.genova.it

Per informazioni più dettagliate, vi rimando direttamente al sito della mostra Edvard Munch.


lunedì 24 febbraio 2014

Lo sguardo poetico di Izis Bidermanas





"Si dice spesso che le mie fotografie non sono realiste. Non sono realiste, ma è la mia realtà"








La Provincia di Milano e la Fondazione Alinari, in collaborazione con la Ville de Paris, presentano allo Spazio Oberdan l’opera di Izis Bidermanas (1911-1980), uno dei grandi fotografi umanisti del secolo scorso: poeta dell’immagine, ritrattista e reporter. La mostra “IZIS. Il Poeta della Fotografia” propone una selezione di oltre 140 fotografie curata dal figlio Manuel Bidermanas con Armelle Canitrot e la proiezione a ciclo continuo all’interno dello spazio espositivo del film “Aperçus d’une vie (Scorci di vita)”.


Un’occasione inedita per riuscire a comprendere meglio il percorso artistico e introspettivo dell’autore che, dopo essere esiliato da ragazzo, ha cercato rifugio nel sogno. Proprio qui, in questo mondo onirico, ha preso vita la sua arte: immagini ricercate, dotate di grande poesia e intuizione. 


Nonostante l’estrema ricercatezza dei dettagli, Izis riesce a far rivivere i suoi oggetti di una spontanea intimità e semplicità. Le sue fotografie in bianco e nero fermano il tempo, cristallizandolo in attimi che trattengono il fiato.



Sono fotografie che rendono immortale la quotidianità: il suo sguardo poetico, la sua realtà, rivivono in donne che giocano su una giostra, sognatori e dormienti, pescatori, bambini, vagabondi.


  

L’opera di questo incredibile uomo non potrà che toccarvi nel profondo. Vi condurrà indietro  nel tempo, in un periodo durante il quale regnavano ricchezza e povertà e luce e ombra si alternavano, proprio come in fotografia.




Le persone avevano provato sulla propria pelle l’orrore della guerra, ma questi scatti non intendevano trasmettere tristezza o sofferenza, anzi. Izis fa tornare alla mente ciò che ci rendeva felici: le bolle di sapone, le tende rosse del circo, le canne da pesca lunghe e bianche, le passeggiate degli innamorati.


"La fotocamera di Izis è una scatola magica. Dalle sue mani fioriscono come per incanto esseri e cose che si aprono e si animano come quei fiori di carta giapponesi che, posti in un bicchier d' acqua, diventano all' istante esseri o cose di un immediato passato. Più tardi, deposte fra le pagine di un libro, sembrano dormire nei loro letti di carta. Ma il lettore apre il libro e le ridesta alla vita quando vuole, e le riconosce anche se non le ha mai viste prima" (Jacques Prévert).


INFORMAZIONI

Quando: Dal 12 febbraio al 6 aprile 2014
Dove: c/o Spazio Oberdan. Viale Vittorio Veneto 2, Milano.
Ingresso: intero 8€; ridotto 6.50€; scuole 3.50€
Per ulteriori informazioni: 02 77.40.63.02 / 02 77.40.63.02
p.merisio@provincia.milano.it
www.provincia.milano.it


mercoledì 5 febbraio 2014

FREEDOM

Zenos Frudakis è uno scultore statunitense di origine greca che ha donato al pubblico, presso la sede mondiale di GSK (GlaxoSmithKline) a Philadelphia, in Pennsylvania, una scultura straordinaria.


"volevo creare una scultura che chiunque, indipendentemente dal proprio contesto, potesse guardare e percepire immediatamente l’idea di qualcuno che lotta per liberarsi. Questa scultura rappresenta la lotta per la conquista della libertà attraverso il processo creativo. (...) Tutti hanno bisogno di uscire da qualche situazione – che si tratti di una lotta interiore o di una circostanza contraddittoria – e di essere liberi "          Z.F.


Come si evince dalle sue parole ha una poetica ben chiara e limpida, che riesce a trasmettere con naturalezza nella mente dei fruitori della sua opera. Questa scultura è realizzata in bronzo, e rappresenta i quattro stadi con cui un individuo raggiunge la libertà, attraverso una tensione evolutiva che muove da sinistra verso destra:



si parte da una sorta di mummia / morte come una figura prigioniera, si evolve verso la seconda figura, che ricorda Schiavo ribelle e inizia a suscitare una lotta per sfuggire.





La figura nel terzo frame inizia a strapparsi dal muro che lo teneva prigioniero e sta uscendo, venendo verso la libertà. 








Tuttavia, l'opera non si ferma qui. A differenza delle opere di Matteo Puglisi, scultore milanese che realizza anch'egli figure cristallizzate nel tentativo di uscire dalla parete, nel quarto fotogramma di Frudakis la figura è completamente libera , vittoriosa, a braccia spalancate.




La stessa tensione ma ancor più tragicamente viva, la ritrovo nelle opere di un giovane (ma veramente talentuoso) scultore italiano, Enrico Ferrarini. Le sue sculture sono vive, in tutta la loro atrocità. Sono figure statiche ma libere contemporaneamente di muoversi e svelare le emozioni più crude.


Sono sculture che gridano e sospirano, che si agitano con i loro muscoli tesi. 
Sono sculture che ci parlano, che entrano sotto pelle e scuotono.

Un artista incredibile, capace di rimanere fedele all'antico mestiere dello scultura utilizzando materiali classici come il marmo o il gesso, per poi rinnovarsi. Le sue opere hanno un respiro nuovo, un respiro moderno che rispecchia la volontà di uscire dai ruoli predefiniti, di affrontare le proprie emozioni, anche le più atroci, e liberarsi da se stessi.




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